Sins of somebody else's past (Wembley, 15.06.2013)
Scrivo questa “confessione” in un albergo di Tottenham Court Road, che, di per sé, rappresenta già un’aggravante. In un’edicola poco distante, oltre vent’anni fa, acquistai la mia prima (ma unica!) rivista per soli adulti. Di quello squallido fascicolo ricordo solo due cose: il marrone dell’involucro in cui l’anziana edicolante imbustò il corpo del reato, e il vergognoso senso di colpa che mi accompagnò durante - e soprattutto dopo - la transizione. Un po’ come se quella rivista me l’avesse venduta la mia nonna. "Catholic school, catholic school, catholic school". Immagino che agli adolescenti di oggi internet abbia facilitato la vita.
Attendendo che il concerto iniziasse ieri sera riprovavo quel senso di colpa (“honi soit qui mal y pense” come recitano le armi di Sua Maestà): scegliendo Wembley, sapevo di avere “peccato”. Per la prima volta in vita mia avevo deciso di assistere ad un concerto per “il sogno di sentirsi dentro a un ‘bootleg’ ” - sì, la citazione è proprio quella, ma ormai ho rinunciato ad ogni pudore -; nella fattispecie un triplo dell’’85, scovato chissà come in gita a Milano ai tempi del liceo, quando i bootlegs erano merce rara; l’ho detto, vero, che per gli adolescenti di oggi internet facilita la vita?
Inutile aggiungere che il tutto mi sembrava patetico, ma temo che fosse un sentimento condiviso sul verde di Wembley. Orde di ragazzine e non, sfoggiavano canotte alla Courtney Cox che, stando ai passaggi in lavatrice, erano appartenute alle madri. Il tutto, incuranti del fatto che giù a St. James’ Park, Queen Elizabeth II celebrasse in pompa magna il giubileo per il sessantesimo dall’ascesa al trono. Sudditi tiepidi o meno, la mia colpa era più grave. Innanzitutto perché, il Born in the U.S.A. Tour non l’ho mai mitizzato. In secondo luogo perché, pochi giorni prima, c’era stata l’ abbuffata stelle e strisce di Milano, e quella Thunder Road acustica che ti fa dire; “Di Springsteen hai ormai visto abbastanza”.
“Dati causa e pretesto”, Wembley rischiava davvero di essere “il concerto di troppo”; quello che ti delude perché te la sei andata a cercare. Cosa ci si poteva aspettare, oggettivamente? Uno show di hits, con Born in the U.S.A. riproposto in toto: una seconda Milano, forzatamente in minore, per chi a San Siro c’era stato. Se andava di lusso, e contro i bookmakers, di sentire l’intero Born to Run speculando sul fattore C: concerti in UK.
Detto fuori dai denti, poi: i full album show funzionavano sì e no anche per i Pink Floyd. Di certo richiedono un’attenzione che fa a pugni con la dimensione stadio. Milano accolse certo Born in the U.S.A. con entusiasmo, ma – forse - più per nostalgia della “prima volta” che per reale apprezzamento. Temo poi che chi era in grado di ricostruire mentalmente la scaletta di quell’album, sotto sotto sperasse che ne suonasse un altro.
Tutto ciò andavo rimuginando verso le 7h20 di una primaverissima notte di mezz’estate, quant’ecco che lo show si anima, e Bruce decide che “London is finally ready for Springsteen”, o parafrasato, che il capo è lui. Soprattutto, appaiono subito chiare due cose. La prima: Bruce ha una voglia matta di osare; la seconda: tutti le locations saranno uguali, ma alcune sono “meno uguali” di altre, a prescindere dai meriti effettivi da Wembley Stadium. Coi Pearl Jam ho cominciato tardi. Il primo acquisto fu uno dei live ufficiali, registrato nel 2000 guarda caso a qualche centinaia di metri. Perché Londra e non, chessò l’Hallenstadion? Beh, “Noblesse oblige”. All’epoca, ciò che mi colpì davvero del disco fu il discorso rivolto al pubblico prima di bis. in sintesi, Vedder diceva che, da adolescente, Londra rappresentava per lui un altro pianeta. l’Olimpo da dove venivano Zeus e Afrodite, ma soprattutto le divinità del rock. La città d’adozione dei Beatles e di Hendrix, quella degli Stones, di Clapton degli Who, della British Invasion. “If you can make it here, you can make it anywhere”, si dice di New York City. Beh, per Londra si rischia di essere ancora più selettivi. Wembley è anni luce dall’adorante San Siro. Nello stadio ci sono ottantamila “pricks” che, come per il calcio, pretendono che il rock l’hanno inventato lì. E tutti i torti non li hanno mica. “Take your best shot, let me see what you’ve got” perché per conquistarli, occorre metterci qualcosa in più.
Ecco allora l’avvio collaudato e deciso di Land of Hope and Dreams, seguita da Jackson Cage convincente e coesa: sul verde di Wembley non la riconosce nessuno, ma Bruce la canta con la rabbia di chi sa di aver ragione. Radio Nowhere ne è l’inattesa ma logica prosecuzione ritmica, con finale prolungato, a dar modo a Bruce di fare messe di richieste ardite.
C’è Save My Love, con infine la coda di fiati per cui sembrava essere stata scritta; c’è Rosalita ravvivata dal main set, c’è Lost in the Flood, autentico atto di sfida ad uno stadio ancora illuminato a giorno. La perla però è This Hard Land, che “flirta” fra l’intimista e il full band. Lì, sì, si capisce che Bruce vuole stupire. In una scaletta del genere, le splendide Wrecking Ball e Death to My Hometown sono ormai corollario. Hungry Heart è la sola concessione ad un pubblico che non sia di puristi, ma quanti minuti son passati? Certo, lassù sul palco, fra i cartelli campeggia una bandiera a stelle e strisce. Per cui, quanto a disco delle serata, i giochi sembrano fatti. Ecco infatti che Bruce si rivolge al pubblico; parla di richieste, di full album… e quando ormai tu stai già arrotolandoti il fondo dei jeans attacca Badlands!
Ciò che segue è un paradiso artificiale che neanche la Soho dei Seventies, e per me in particolare. È nel contempo un atto di ribellione ad ogni logica di concerto da stadio. Darkness on the Edge of Town, eseguito all’imbrunire, davanti a pubblico vestito per il 4 luglio.
Di Darkness - del disco e della sua struttura - credo di aver già detto troppo molto tempo fa. Di certo la scelta di quest’album dimostra quanto Bruce volesse avere il controllo della serata. In tutto per tutto. La Britannia avrà altre serate per gli hits, ma stasera nel suo tempio del rock a decidere è solo lui.
Segue la brillante Shackled and Drawn, e le inevitabili Waiting on a Sunny Day e The Rising. Chiuderà con qualcosa di noto ai più? Macché Light of Day. Come dire: un main set di due ore e mezza in uno stadio, senza pezzi da Born to Run o Born in the U.S.A. Se poi ad aprire i bis c’è l’irlandesissima Pay Me My Money Down, apriti cielo (ma a riprova dell’assurdità della serata londinese, non ha neppure piovuto).
Si chiude infine con qualcosa di più “ragionevole”: Born to Run, Bobby Jean - richiesta attraverso la famosa bandiera sul palco - Dancing in the Dark, Tenth Avenue Freeze-out, e Twist and Shout, con le inevitabili allusioni alla spina di Hyde Park. Tutto finito? Nossignori. Ecco Bruce tornarsene sul palco chitarra e armonica. Chi era a Milano sa perché. “Tell me friend, can you ask for anything more?”. Direi proprio di no.
Wembley è Wembley, malgrado i suoi reali meriti del suo verde. Il concerto di troppo? Beh, lo confesso, sarà per la prossima volta, anche se di fatto sarà suonato nel giardino di casa.
Un Fan